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Responsabilità ambientale: le novità introdotte dal decreto “Terra dei Fuochi”
Con la conversione in legge del DL 116/2025 si inaspriscono le sanzioni per i reati ambientali e si amplia la responsabilità degli enti.
La CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani), con la sentenza del 30 gennaio 2025 sulla Terra dei Fuochi, ha condannato l'Italia per non aver tutelato adeguatamente i cittadini esposti per anni ai roghi tossici e all'inquinamento. La risposta del legislatore non si è fatta attendere: dal giorno successivo all'entrata in vigore del decreto legge 116 dell'8 agosto scorso, convertito in legge il 1° ottobre e ora in vigore come Legge 147/2025, il quadro normativo per le imprese che operano nel settore ambientale è di fatti mutato.
Un salto di qualità nel sistema sanzionatorio
Il provvedimento modifica il Testo Unico Ambientale (D.lgs. 152/2006) e introduce un deciso inasprimento delle pene per gli illeciti nella gestione dei rifiuti. Il decreto amplia significativamente il catalogo dei reati presupposto del D.lgs. 231/2001, quello sulla responsabilità amministrativa degli enti, trasformando la conformità normativa da adempimento burocratico a condizione essenziale per la continuità operativa.
Le modifiche hanno ricevuto un'ulteriore calibratura in sede parlamentare. Il Senato ha ricalibrato l'impianto sanzionatorio distinguendo in modo più netto tra violazioni amministrative e penali, mantenendo un quadro repressivo severo ma introducendo maggiori garanzie per imprese e operatori regolari. Per le violazioni colpose o formali da parte di soggetti già autorizzati, il passaggio al Senato ha previsto un regime contravvenzionale, mentre resta la severità massima per le condotte dolose e per chi opera senza titolo.
Abbandono rifiuti: tre livelli di gravità
La novità più rilevante riguarda la nuova architettura delle fattispecie penali sull'abbandono di rifiuti. Il legislatore ha costruito un sistema articolato su tre livelli di gravità crescente, abbandonando l'indistinta previsione precedente. Per i rifiuti non pericolosi la sanzione base è un'ammenda da 1.500 a 18.000 euro. Ma se l'abbandono comporta pericolo per la salute o avviene in siti già contaminati, scatta il salto qualitativo: reclusione da sei mesi a cinque anni per i cittadini, che sale da nove mesi a cinque anni e sei mesi per i titolari di impresa o responsabili di enti.
Per i rifiuti pericolosi il sistema è ancora più severo. La reclusione parte da un anno e può arrivare fino a sei anni e sei mesi per le imprese quando sussistono le circostanze aggravanti. Una previsione che non lascia margini di manovra e che colpisce anche comportamenti apparentemente minori. Come sottolineato dalla Circolare del Ministero dell'Interno n. 59513 del 10 settembre scorso, anche un deposito temporaneo gestito male può trasformarsi in un reato penale.
Il nodo del deposito temporaneo
Proprio il deposito temporaneo rappresenta uno dei punti più delicati per le aziende. L'articolo 183 del Testo Unico prevede che il deposito sia legittimo se i rifiuti vengono avviati allo smaltimento almeno trimestralmente, oppure quando il quantitativo raggiunge i 30 metri cubi (di cui massimo 10 di rifiuti pericolosi). Il rispetto di questi limiti, insieme alla corretta separazione per categorie omogenee e alla tenuta della documentazione, diventa ora cruciale. Superare anche di poco i tempi o le quantità previste può trasformare un deposito lecito in un deposito incontrollato, con tutte le conseguenze penali del caso.
Le imprese devono prestare particolare attenzione alla classificazione dei rifiuti. L'errore nell'attribuzione del codice CER, la miscelazione di rifiuti incompatibili, l'assenza di idonei contenitori o il deposito su suolo non impermeabilizzato sono tutti elementi che possono far scattare le sanzioni più gravi. E il decreto chiarisce che anche la violazione delle regole sul deposito temporaneo rientra tra i comportamenti sanzionabili, colpendo chi lo utilizza impropriamente come sistema di smaltimento mascherato.
Trasporto e tracciabilità sotto la lente
Il trasporto dei rifiuti è l'altro grande capitolo della riforma. Chi commette reati utilizzando veicoli a motore rischia la sospensione della patente di guida fino a nove mesi e la confisca del mezzo impiegato per l'illecito in caso di condanna. L'accertamento delle violazioni può avvenire anche tramite sistemi di videosorveglianza comunali, senza contestazione immediata. Una novità che la Circolare del Ministero dell'Interno ha esteso anche al getto di piccoli rifiuti su tutte le strade, comprese quelle urbane.
Particolare attenzione è rivolta alle imprese che svolgono autotrasporto di rifiuti per conto terzi senza essere iscritte all'Albo Nazionale dei Gestori Ambientali. In questi casi la sospensione dall'Albo va da quindici giorni a due mesi, ma in caso di reiterazione o recidiva scatta la cancellazione con divieto di reiscrizione per due anni. Una sanzione che equivale all'esclusione definitiva dal mercato.
Registri e formulari: errori che costano caro
La tracciabilità documentale ha assunto un'importanza strategica. Per l'omessa o incompleta tenuta del registro di carico e scarico si applica un'ammenda da 4.000 a 20.000 euro se i rifiuti sono non pericolosi, che sale da 10.000 a 30.000 euro per i pericolosi. Ma le sanzioni pecuniarie sono solo l'inizio: sono previste anche la sospensione della patente di guida e la sospensione dall'Albo Gestori Ambientali per periodi che possono arrivare fino a un anno nei casi più gravi.
Ancora più severa la risposta per le falsità documentali nei formulari di identificazione. La pena resta la reclusione da uno a tre anni, accompagnata dalla confisca dei mezzi, dalla sospensione della patente e dalla sospensione dall'Albo fino a dodici mesi. Il formulario di identificazione dei rifiuti è il documento che accompagna il trasporto e ne garantisce la tracciabilità. Ogni errore, omissione o falsificazione può avere conseguenze devastanti per l'azienda e per le persone fisiche coinvolte.
A queste sanzioni si aggiungono quelle specifiche per il sistema RENTRI, il Registro Elettronico Nazionale per la Tracciabilità dei Rifiuti.
La responsabilità dell'ente: il 231 diventa ineludibile
Il decreto introduce anche gli articoli 259-bis e 259-ter nel Testo Unico Ambientale, che prevedono un'aggravante specifica per i reati commessi nell'esercizio di attività d'impresa, con richiamo diretto alla responsabilità amministrativa degli enti. Quando il fatto è commesso nell'ambito di un'impresa o di un'attività organizzata, le pene aumentano di un terzo. Ma soprattutto si apre la strada alla responsabilità dell'ente ai sensi del D.lgs. 231/2001.
Il sistema della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche prevede sanzioni pecuniarie calcolate per "quote", il cui valore può variare da 258 a 1.549 euro. Il numero di quote dipende dalla gravità del reato e dal comportamento dell'ente, e per i reati ambientali più gravi può arrivare fino a 1.200. Questo significa che una singola violazione può costare all'azienda diverse centinaia di migliaia di euro. Per un reato di inquinamento ambientale, ad esempio, le quote previste vanno da 250 a 600.
Ma sono le sanzioni interdittive quelle che le imprese temono di più. L'interdizione dall'esercizio dell'attività può essere temporanea (da tre mesi a due anni) o, nei casi più gravi, definitiva. La sospensione o revoca delle autorizzazioni ambientali equivale all'impossibilità di operare nel settore. Il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione preclude la partecipazione a gare pubbliche e l'accesso a finanziamenti. Per molte aziende, soprattutto quelle che hanno la PA come principale cliente, si tratta di una condanna a morte.
Il decreto prevede inoltre l'interdizione da licenze, autorizzazioni e concessioni per un periodo da uno a cinque anni nei confronti di soggetti condannati in via definitiva per inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico di materiale radioattivo e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. La disposizione include anche il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
La difesa possibile: il modello organizzativo
Esiste però uno strumento di tutela: il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo previsto dal D.lgs. 231/2001. Un modello ben fatto e applicato può esonerare l'azienda dalla responsabilità, anche se un dipendente commette un reato. Ma attenzione: deve essere efficace davvero, non solo sulla carta. La giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere insufficienti i modelli meramente formalistici.
Il modello deve innanzitutto mappare tutte le attività nel cui ambito possono essere commessi reati ambientali. Per un'impresa che gestisce rifiuti questo significa analizzare trasporto, stoccaggio, trattamento, smaltimento, intermediazione e gestione documentale. Per un semplice produttore occorre comunque presidiare la classificazione dei rifiuti, il deposito temporaneo, la selezione dei trasportatori, la scelta degli impianti di destino e la tenuta dei registri.
Per ciascuna area di rischio devono essere previsti protocolli operativi dettagliati, con chiara segregazione delle funzioni: chi propone l'operazione, chi autorizza, chi esegue, chi controlla, chi registra. I livelli autorizzativi devono essere proporzionali al rischio. Cruciale è anche la nomina di un Organismo di Vigilanza autonomo e dotato delle necessarie competenze, che vigili sul funzionamento e sull'osservanza del modello.
Il sistema disciplinare deve prevedere sanzioni proporzionate per le violazioni delle procedure, applicabili a tutti i livelli aziendali. La formazione del personale deve essere continua e verificata, non un adempimento sporadico. E tutto deve lasciare tracce documentali: le autorizzazioni rilasciate, le verifiche effettuate, i controlli eseguiti, le sanzioni irrogate.
L'impatto pratico per le imprese
Per le aziende il messaggio è chiaro: la gestione ambientale non è più un'area grigia dove si può navigare a vista. Gli errori costano caro, non solo in termini di sanzioni pecuniarie ma anche di reputazione, continuità operativa e libertà personale per amministratori e dirigenti. Il titolare dell'impresa o il responsabile dell'attività organizzata risponde anche per omessa vigilanza sugli autori materiali dei reati riconducibili all'attività aziendale.
Le imprese devono quindi verificare con urgenza la propria situazione. Controllare che tutte le autorizzazioni ambientali siano valide e aggiornate. Verificare che il deposito temporaneo rispetti tempi e quantità. Assicurarsi che i registri siano compilati correttamente e che i trasportatori siano regolarmente iscritti all'Albo. Essere in regola con gli adempimenti RENTRI. E soprattutto, controllare i fornitori: la responsabilità può ricadere anche sul produttore del rifiuto se si affida a soggetti non autorizzati.
Il decreto destina anche 15 milioni di euro per il 2025 per la rimozione dei rifiuti e l'avvio delle attività di bonifica nell'area della Terra dei Fuochi, che saranno successivamente integrati con ulteriori risorse. Ma l'aspetto finanziario è solo una parte della risposta. L'obiettivo principale è cambiare radicalmente l'approccio alla tutela ambientale, passando dalla tolleranza all'intransigenza, dalla sanzione amministrativa alla responsabilità penale, dal controllo sporadico alla vigilanza sistematica.
Le opportunità oltre i rischi
Per le imprese più lungimiranti, tuttavia, questo scenario rappresenta anche un'opportunità. Chi si adegua correttamente non solo evita sanzioni pesantissime, ma costruisce un vantaggio competitivo. La conformità ambientale diventa un elemento di differenziazione sul mercato, soprattutto verso clienti e investitori attenti ai criteri ESG. L'accesso a gare pubbliche, finanziamenti e agevolazioni dipende sempre più dalla capacità di dimostrare una gestione ambientale impeccabile.
Le certificazioni ambientali, i report di sostenibilità, la trasparenza verso gli stakeholder non sono più solo strumenti di comunicazione ma attestazioni di affidabilità. Le imprese che investono in sistemi gestionali integrati, nella digitalizzazione dei processi, nel monitoraggio ambientale continuo costruiscono una reputazione che si traduce in valore economico.
Il cambio di paradigma è evidente: dalla compliance vista come costo alla compliance come investimento strategico. E in un mercato sempre più attento alla sostenibilità, questa prospettiva non è più rinviabile.


